Il rischio di stress correlato al lavoro in azienda è sempre presente, ma uno psicologo del lavoro può aiutarvi. L’intervista a David Pelusi, Coordinatore del Gruppo di lavoro Rischio Stress Lavoro Correlato dell’Ordine degli Psicologi del Lazio. “Se mi arrivano 100 email al giorno e non ho chiaro il mio ruolo in azienda significa che la comunicazione è poco chiara”, ma le soluzioni sono numerose se l’organizzazione è pronta a recepirle. Gli abbiamo chiesto di parlarci dello stress e del suo lavoro. Vediamo cosa ci ha detto!
David Pelusi è il Coordinatore del Gruppo di lavoro Rischio Stress Lavoro Correlato dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, speaker dell’incontro “Smart working e benessere sul luogo di lavoro” al Festival della Psicologia che si è tenuto l’8 e 9 giugno al Teatro India.
Buongiorno David, e grazie per aver accettato l’intervista. Di cosa si occupa il gruppo di lavoro e cosa si intende per “stress”?
Dire “rischio stress lavoro correlato” è diverso dal dire che una persona è “stressata”. Il gruppo si occupa di un sottocapitolo del benessere e sicurezza; lo psicologo del lavoro si concentra più sui gruppi che sulla singola persona e – in quanto esperto di processo – può aiutare ad individuare gli elementi stressogeni all’interno di un’organizzazione, e a risolverli con soluzioni anche a basso impatto economico. L’Ordine degli Psicologi valorizza la figura dello psicologo e tutela tanto i professionisti, i quali rispondono a un codice deontologico, quanto le organizzazioni che si avvalgono dell’aiuto di uno psicologo del lavoro.
Quali sono gli elementi alla base dello stress?
Non stiamo parlando dello stress personale, per esempio quello che si accumula a causa del traffico, bensì di quello correlato al lavoro. Per esempio: se faccio un lavoro per cui mi arrivano 100 email al giorno, e non ho chiaro il mio ruolo in azienda, e il mio capo mi dà obiettivi vaghi, significa che vi è una comunicazione poco chiara. La soluzione potrebbe essere la redazione di una job description, o l’inserimento di una mensa aziendale, o un corso su come si delineano efficacemente gli obiettivi.
I più giovani usano le nuove tecnologie in modo intuitivo, mentre i più maturi devono imparare ad usarle. Come si colma questo digital divide? E cosa dire dello smart working?
Il gap digitale si colma usando non una logica conservativa di resistenza bensì proponendo corsi di alfabetizzazione all’uso di strumenti digitali. Lo smart working presenta sia lati positivi che rischi: da una parte si evita il traffico, si risparmia tempo, si lavora a casa, ma significa anche dover usare strumenti digitali: questo può aumentare il rischio di stress lavoro correlato se il lavoratore non sa usare il pc o non sa connetterlo alla Rete. In tal caso lo smart working da elemento di benessere potrebbe diventare fonte di stress. E’ importante che l’azienda pianifichi queste attività e non segua una “moda”. Lo psicologo aiuta a capire se ci sono resistenze da parte del personale, a comprenderle e a superarle.
Secondo te, l’obiettivo di diminuire lo stress correlato al lavoro è l’aumento della produttività lavorativa oppure il miglioramento del benessere personale?
I due elementi non sono in antitesi, ma possono andare di pari passo. Con lo smart working si può migliorare sia la vita lavorativa che quella personale, aumentando la produttività. Spesso il lavoratore pensa che l’azienda voglia “spremerlo” per aumentarne la produttività, ma occorre sapere che una persona che sta bene nel proprio luogo di lavoro lavora meglio e produce di più. Lo stress dipende anche dalle relazioni fra colleghi: in tal caso lo psicologo può aiutare anche a migliorarle e a predisporre il lavoratore a ottenere aiuto se lo richiede, e ad accorciare i tempi.
Parliamo di tirocinanti e neolaureati… ci puoi dare un suggerimento su come affrontare questa fase delicata?
Sono stato neolaureato anche io e la fonte di stress può essere il caos: appena ci si trova nel mondo del lavoro, si potrebbe non capire come funzionano alcuni processi aziendali e la gerarchia. E vi è sicuramente uno scollamento fra università e mondo del lavoro: per portare un esempio personale, l’apertura di una partita IVA non mi è stata insegnata all’università, e quindi ho dovuto chiedere ai centri per l’impiego e al commercialista, e questo mi ha provocato un po’ di stress. Per quanto riguarda la “gavetta”, magari nell’azienda non si faranno esattamente le cose che si sono studiate, ma c’è sempre qualcosa da imparare: dovrebbe essere il neolaureato a mettersi nelle condizioni di imparare.
Alice Palombarani
Scritto il: 20.06.2018
Pubblicato su: Universitario Roma
Publicato su Occhiaperti Blog il: 14.08.2018
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