L’Erasmus che non ti aspetti

NB. articolo scritto nel gennaio 2015

Sei mesi fa non avrei mai creduto di poter vivere questo giorno fortunato. Invece eccomi qui: domani partirò per sei mesi di Erasmus a Parigi. Sarà il viaggio più formativo che abbia mai fatto e la permanenza più lunga lontano da casa. Mi sento felice e fiduciosa nel futuro. Ma cosa significa in pratica?

Tutti sappiamo che l’Erasmus è il programma europeo di mobilità studentesca: si può studiare presso un’università estera in modo che, l’università di appartenenza, per noi Roma Tre, riconosca gli esami sostenuti. A partire dal 2014 il nuovo Erasmus+ gode del  finanziamento, secondo il sito web ufficiale, di ben 1 miliardo e 800 milioni di euro da parte dell’UE.

Durante il mio secondo anno accademico, nel febbraio 2014, seppi dell’uscita del bando in modo quasi carbonaro grazie a una notizia rimbalzata su Facebook, quindi non dalle fonti ufficiali di Roma Tre; ne parlai con i miei genitori (perché questa scelta è innanzitutto un investimento di tutta la famiglia) e decisi di partecipare compilando la domanda, scegliendo tra le destinazioni quella in cui avrei trascorso il terzo anno. Ad aprile controllai le graduatorie e…meraviglia! Nella lista ufficiale compariva la mia matricola: avevo vinto la borsa di studio! Ero raggiante e saltavo per casa, abbracciando tutti con le lacrime agli occhi. “Andrò in erasmus” gridavo, pensando che vincere la borsa e partire effettivamente fossero la stessa cosa. Ma mi sbagliavo, come scoprii il giorno dopo.

Per me, come per tanti coetanei, iniziò un periodo di cinque-sei mesi fantozziano. Come è espresso nel bando “è cura dello studente provvedere all’organizzazione del proprio soggiorno”; nonostante la consapevolezza che la ricerca di alloggio e coinquilina fosse un compito inderogabilmente personale, si aggiunse il pesantissimo iter burocratico richiesto da Roma Tre. Non immaginavo che la mia università mi avrebbe lasciata completamente da sola. Mi atterriva tanto l’inerzia quanto la sordità degli uffici universitari che gestivano i miei documenti. Dovevo controllare che non venisse smarrito nulla, sollecitare io stessa il trasferimento dei miei dati da un ufficio a quello contiguo, rincorrere professori in partenza; giorni preziosi evaporavano nei tempi morti: un caos che il semplice uso corretto della tecnologia informatica avrebbe migliorato (anche a semplice livello di dipartimento). Mi sentivo impotente e abbandonata: come se stessi combattendo contro i mulini a vento. Ma non solo: sopra di me pendeva la spada di Damocle delle tante scadenze perentorie. Mi convinsi un paio di volte che non sarei partita, che non avrei fatto in tempo; ero arrabbiata. Senza dubbio gli uffici riescono a gestire la grande mole di erasmus (in entrata e in uscita), compiendo un lavoro di organizzazione lodevole; tuttavia il trattamento riservato a noi studenti sembra spingerci al limite della volontà. Per esempio, un giorno chiamai l’ufficio centrale per un chiarimento, ricevendo l’umiliante risposta: “Riaggancia il telefono e facci lavorare”. Perché tanta sistematica ritrosia da un’università che gode di finanziamenti europei e che avrebbe interesse nel dare ai propri ragazzi questa bellissima opportunità? Temprata dalle avversità, cominciai ad agire con astuzia: imparai a prevenire le disattenzioni degli uffici, arginando i vuoti informativi. Saltai settimane di lezioni, rischiando di compromettere l’adeguato studio per gli esami. Nelle attese fuori dagli uffici conobbi molti coetanei: ci scambiavamo opinioni ed esperienze personali, e mi resi conto che anche loro vivevano la mia difficoltà. La percezione comune era di uffici operanti in senso contrario. Non si rischia così di demotivare gli studenti (molti dei quali rinunciano alla borsa) e di lasciare indietro le fasce sociali più deboli? L’aumento dei finanziamenti Erasmus+ ha lo scopo di coinvolgere un maggior numero di studenti, tuttavia a patto che vada di pari passo con il miglioramento dei servizi.

Alla fine eccomi qui. Mi sento una sopravvissuta alla selezione naturale, e potrei dire che per poter effettivamente partire in erasmus occorre volerlo davvero ed essere tenaci. Adesso sono fiduciosa e aperta alle novità. Ed è solo l’inizio.

 

Articolo di: Alice Palombarani

scritto il:13.01.2015

pubblicato su www.trevolution.altervista.org il: 27.02.2015

pubblicato su www.occhiapertiblog.wordpress.com il: 23.05.2015

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